Come stai Torino, bene?

A vedere tutto l’ammasso di roba sul tavolo della cucina di casa, sembrava dovessimo partire per un campeggio, piuttosto che per un concerto. Io e i miei genitori eravamo abbastanza inesperti riguardo ai preparativi logistici per assistere a uno show – con annessa trasferta – pertanto, presi dall’ansia e dall’emozione, non volevamo farci mancare nulla né dimenticare niente. Ricordo con simpatia che cercammo il modo più insolito di nascondere la macchina fotografica (una reflex a rullino con relativo obiettivo da 85 mm) alla perquisizione che sarebbe potuta verificarsi all’ingresso dei cancelli. Optammo così per avvolgerla nella carta scottex e poi nella stagnola, camuffandola con i panini all’interno della borsa freezer. Sapete, sul biglietto c’era scritto ben chiaro “E’ vietato introdurre all’interno dello stadio macchine fotografiche”.

Da circa 3 mesi aspettavamo questa giornata, che era finalmente arrivata. I biglietti erano stati in cassaforte fino al giorno dello show, come se si trattasse dei 3 gioielli più preziosi di questo mondo. 74 mila lire, tribuna numerata, posti centrali, Stadio delle Alpi di Torino, Curva sud.. Il massimo che si poteva chiedere. Il concerto cadde di mercoledì, pertanto i miei furono costretti a lasciare il lavoro per un giorno, pur di portarmi a vedere la mia band preferita. Appresi la notizia della data italiana (la prima dopo 5 anni) verso la fine di Aprile da un sito scozzese chiamato Crabsody in Blue (www.crabsodyinblue.com), molto conosciuto all’epoca, forse il più attendibile riguardo alle novità in casa AC/DC. Peccato non sia più così aggiornato ultimamente. Ad ogni modo, il 4 Luglio 2001 il sogno di vedere la band dal vivo sarebbe finalmente diventato realtà. Fu così che raggiungemmo lo stadio alle porte della città, mentre nelle vie circostanti si potevano già osservare compagnie che si dirigevano a piedi verso gli ingressi, sfoggiando magliette della band. Uno scenario che non avevo mai visto prima e che mi fece sentire “a casa”. Il fatto di vedere così tanti fans uniti fece battere il mio cuore da 14enne ancora più forte. Una volta parcheggiato e giunti ai cancello non trovammo alcuna coda, le porte erano infatti già aperte da qualche ora. Ne approfittammo per prendere una maglietta celebrativa della leg europea dello Stiff Upper Lip tour (che ancora conservo) in una delle bancarelle fuori dallo stadio, oltre che ad una fascia. Man mano che ci si addentrava nella struttura era possibile sentir aumentare l’intensità del rumore del pubblico, che aveva già riempito quasi totalmente il parterre.

Già non sembrava vero: riconoscevo quei Marshall che avevo tante volte visto sullo schermo della televisione, oltretutto dietro la batteria del gruppo spalla ecco la mitica Sonor di Phil Rudd, coperta da dei teli. C’è anche la campana di Hells Bells appesa al soffitto del palco che ai lati, in cima alle torri, “indossava” due enormi cappelli cornuti siglati con la lettera A. Ci fu anche un simpatico intermezzo nel momento in cui un personaggio in divisa da scolaretto apparve nelle gradinate più alte della curva: a prima vista poteva effettivamente sembrare quello vero, tanto che tutti i presenti cominciarono ad applaudire scandendo “Angus! Angus!”, per omaggiarlo della (finta) sua apparizione prima dello show. Il binocolo che ci portammo da casa (si, c’era anche quello) servì per esserne realmente sicuri. Anche se comunque avevo già avuto modo di sapere la scaletta e vedere qualche fotografia dello stage e dello show che sarebbe cominciato di li a poco, il fatto che all’epoca un canale come Youtube non fosse ancora esistito lasciava comunque un ampio margine di curiosità e immaginazione riguardo a come sarebbe stata la performance della band e l’esecuzione delle canzoni più particolari (alcune tra l’altro non venivano proposte da un paio di decenni). Tutto ciò che raccontava l’esibizione era riportato nelle recensioni su carta solamente qualche settimana dopo e nel web nel giro di qualche giorno. Era quindi possibile recuperare materiale video solo attraverso gli scambi tra collezionisti, molto tempo dopo la data effettiva del concerto. Avere in mano una copia del filmato in poco tempo (escluso che venisse ripreso personalmente) era alquanto impensabile. Siamo allo stesso discorso delle anteprime online: la magia di ricevere il pacchetto contenente il VHS del tuo primo show parecchi mesi dopo la data, scartarlo e freneticamente introdurlo nel videoregistratore per goderselo nella sua interezza (come è successo) è qualcosa di difficilmente riproponibile. C’è il web, milioni di utenti, milioni di video. Comodi ma senza il piacere di avere un pezzo da collezione-pirata fra le mani. E’ al contempo bello immaginare quanti video inediti possano comunque ancora esistere dietro ai file uploadati sul web, magari in qualche scatolone in soffitta o in cantina, sorpassati e talvolta dimenticati con lo scorrere del tempo e dell’avanzamento della tecnologia.
I posti prenotati erano in una posizione fantastica.

Una vista quasi perfetta di tutta quanta la venue e un’acustica ottimamente bilanciata, non appena ce ne accorgemmo, quando cominciarono i gruppi di spalla: I nordici Hardcore Superstar e gli svizzeri Gotthard, che riuscirono perfettamente a scaldare i circa 22.000 presenti. Ricordo ancora l’urlo del compianto Steve Lee al termine dell’esibizione: “E ora vi lasciamo con il mitico sound degli AC/DC!” Sta di fatto che anche il filmati che aprì le danze era una novità. La statua di Angus che combinava danni in giro per il mondo scaldò ulteriormente l’atmosfera e creò un picco di adrenalina quando la voce di sottofondo chiese ai presenti “Is this the end of the Angus statue?”, poco dopo essere stordita da una scossa ad alta tensione e tramortita cadeva a terra, mentre ne veniva inquadrato l’occhio. A quel punto il vero Angus apparve da un angolo del palco, illuminato dall’occhio di bue per attaccare con il riff di Stiff Upper Lip. Il boato sullo stop di Brian “I was born with a Stiff, Stiff Upper Lip”, diede il via all’apoteosi. Mi lasciò impressionato il pogo che riuscivo a vedere giù nel parterre. Vortici di persone che si spingevano, birre che volavano in aria e quei 5 ragazzi poco più sopra, in carne ed ossa. Rimango ancora oggi stupito della naturalezza con cui venne spontaneo ballare a tutti i presenti – compreso me – , tentando di imitare i gesti chitarristici, piuttosto che suonare nell’aria la batteria. Un vero e proprio flusso di energia che dava il via ad un’indescrivibile festa, unica nel suo genere, a cui si dovrebbe partecipare, dico io, almeno una volta nella vita. Un’esperienza dalla quale se ne esce inevitabilmente segnati. Vedere gli AC/DC “dal vivo” (intendo vederli muovere realmente con i propri occhi) è stata una sensazione molto strana. Il realizzare che gli ideatori dei più grandi riff di tutti i tempi “esistevano”, o almeno, li stavo vedendo personalmente in una circostanza fino ad allora completamente inedita, non fu propriamente automatico, come avvolto da una sorta di incredulità. Fu la stessa cosa che mi capitò anche in occasione della data di Stoccolma, 8 anni dopo, per il Black Ice Tour.

Ragionandoci, penso sia questo uno dei fattori che abbia reso così richiesti i biglietti per il Black Ice Tour. Il fatto di “dimenticarsi”, intendo lasciar offuscare dagli anni la nitidezza della immagini presenti nella nostra memoria, ha scatenato automaticamente per molti quella stessa emozione di rivivere ancora una nuova “prima volta”. Oltretutto, sapere che sempre 8 anni dopo li avrei conosciuti personalmente per merito di un sito al quale non avevo ancora assolutamente pensato…insomma, non ci avrei creduto neanche morto.

Con il senno di poi, ci terrei a fare una considerazione riguardo a questo concerto, condivisa pienamente e con piacere insieme al mio collaboratore di AC/DC Italia Andrea che, in svariate telefonate, ha confermato e discusso la mia opinione in merito. Il concerto di Torino, o perlomeno, la tournèè dello Stiff Upper Lip tour, ci è sembrata l’ultima occasione di vedere una band ancora avvolta da un’atmosfera intima, ancora poco “commerciale” (se mi permettere di usare questo termine) e poco pubblicizzata da media. Ricordo che io stesso avevo notato soltanto una breve pubblicità su una tv locale. Non saprei, era come se gli AC/DC fossero ancora la band “dei metallari”, dei rocker che ormai avevano perso la loro folta chioma, che ancora una volta avevano la possibilità di vedere la band che da giovani li aveva così entusiasmati. Al concerto di Torino c’era gente di ogni età certo, bambini di 10 anni piuttosto che signori di 60, ma mancava quel vago “consumismo” che era invece presente nel più recente Black Ice Tour. La band è diventata a portata di “famiglia” oggi più che mai. Non sta a me dire se è un bene o un male, ma quella sensazione di appartenere a un clan più o meno ristretto di veri seguaci mi sembra purtroppo sparita o perlomeno, nettamente diminuita. Il fatto di essere ancora sulla cresta dell’onda dopo 8 anni di assenza è stata comunque una cosa positiva: un’occasione speriamo non unica per far apprezzare alle nuove generazioni una band che ha fatto la storia e che a 60 anni suonati è in grado di sbaragliare band di tanti lustri più giovani. Colpa o merito di Sony?

Gabriele