1. Go down
2. Dog eat dog
3. Let there be rock
4. Bad boy boogie
5. Overdose
6. Problem child
7. Hell ain’t a bad place to be
8. Whole lotta Rosie
Nelle originali versioni Europee, la canzone "Problem child" era sostituita da "Crabsody in blue".
Tutte le canzoni firmate (Young/Young/Scott)
Rilasciato in Europa il 23 Giugno del 1977, il 14 Ottobre 1977 in USA. Registrato agli Albert Studios di Sydney, Australia. Prodotto da Harry Vanda e George Young.
Altro degno di nota:
La canzone ‘Whole lotta Rosie’ (tradotta come ‘Interamente Rosie’) narra di una delle tante ragazze avute dal cantante Bon Scott, dalla forme particolarmente ‘abbondanti’.
Lineup registrazione:
Angus Young – Chitarra
Malcolm Young – Chitarra
Bon Scott – Voce
Mark Evans – Basso
Phil Rudd – Batteria
Canzoni pubblicate come singoli:
Let there be rock
Dog eat dog
Whole lotta Rosie
Problem Child
1. Go down
2. Dog eat dog
3. Let there be rock
4. Bad boy boogie
5. Overdose
6. Crabsody in blue
7. Hell ain’t a bad place to be
8. Whole lotta Rosie
Tutte le canzoni firmate (Young/Young/Scott)
Rilasciata in Australia il 21 Marzo 1977. Registrato a Sydney, Australia presso gli Albert Studios. Prodotto da Harry Vanda & George Young.
Lineup registrazione:
Angus Young – Chitarra
Malcolm Young – Chitarra
Bon Scott – Voce
Mark Evans – Basso
Phil Rudd – Batteria
Recensione del nostro collaboratore Diego "GibsonSG"
Rauco, violento, sporco, immortale, carico, senza pietà… non bastano 1000 aggettivi diversi, per descrivere quello che è probabilmente il più grande album di Hard Rock di tutti i tempi. “Let there be Rock” un’assalto sonoro, una dichiarazione di guerra in un momento in cui, nel 1977, il mondo musicale prendeva moltissime pieghe differenti, dal punk alla new wave, alla disco. Mentre i generi più sanguigni, come il Rock’n Roll, il Blues, il Rhythm‘n Blues e perfino il Jazz, si apprestavano ad attraversare la più grossa crisi di sempre, culminata nel 1979, gli AC/DC, con un’album di Hard Rock tra i più violenti e “picchiati” di sempre, fecero parlare di sé, finalmente anche negli Stati Uniti, metà gia da tempo agognata.
Gli AC/DC, provenendo dà una realtà musicale non esattamente al passo con i tempi, ovvero quella australiana, avevano già realizzato dischi di grande rispetto, ma, a differenza della concorrenza inglese e americana, il loro stile risultava leggermente più “vecchio”, un po’ “indietro”, almeno se paragonato alle bands d’Europa e America. Fu solo quando trasferitisi in Inghilterra, nell’ Aprile del 1976, e venuti a contatto con una realtà musicale più moderna, poterono poi elaborare il nuovo disco con delle idee più fresche, rendere più attuale il loro Boogie forsennato, e incidere un’album-capolavoro. Si, perché se “Back in Black” è il loro più grande album da un punto di vista di vendite, di maturità, di classe e di qualità compositiva, è però a “Let there be Rock” che spetta la palma di capolavoro, perché irruppe nel mondo discografico come un fulmine a ciel sereno, un vero e proprio assalto rauco, e nessuno poteva immaginare che una Boogie band di elevato tasso alcolico, proveniente dall’Australia operaia e con un genere così già ampiamente sfruttato, potesse uscire con un prodotto così rinnovato, così rozzo e geniale, ma nello stesso tempo attaccato alle proprie radici di Rock’n boogie.
E molti nel corso degli anni, hanno lodato questo rumorosissimo 33 giri, da Tony Iommi a Pete Townshend a Slash, considerandolo un vero e proprio masterpiece. Il caso di “Back in Black” fu diverso, l’album uscì dopo un periodo di crescente maturazione e di costante adattamento a ciò che le chart di rock chiedevano, pur dettando sempre legge, e prefissando un sound che tutti, negli anni a venire, avrebbero usato come riferimento principale. Ma entriamo nel vivo dell’album, la partenza è subito furiosa, “Go Down” si diverte nel suo Boogie incessante, un brano con un groove eccezionale, che rivela subito come gli AC/DC abbiano ormai trovato una loro identità ben precisa. Qui, le chitarre dettano legge, il brano suona come uno shuffle, ma non lo è, sono le chitarre che con la propria ritmica danno questo senso al brano; quasi portano via a Phil Rudd lo scettro del conduttore principale del ritmo, in testimonianza di quanto i fratelli Young riescano a trasformare un brano, con i propri personalissimi arrangiamenti.
“Dog eat dog” è un brano molto semplice e diretto, una “meraviglia di tre accordi” come scrisse Mark Putterford. Questo brano, insieme a “Go Down”, ancora percorre una strada già nota agli AC/DC, insomma fin qui è tutto normale, ma le innovazioni stanno per arrivare, “Let there be Rock”, è il terzo brano, che dà il calcio d’inizio alla svolta, ed alla leggenda. Brano biblico, nel vero senso del termine, un colosso nella carriera degli AC/DC, il brano che meglio rappresenta la filosofia che sta dietro la loro musica. Un brano che non concede respiro, la sezine ritmica basso e batteria, creano un tappeto sonoro indistruttibile, granitico, su di esso le chitarre degli Young non sono mai state così crudeli e furibonde, gli assoli sono da manuale, Angus Young si rivela un virtuoso del proprio genere, con una fantasia ed un gusto comune a pochi.
E sopra questo innarrestabile crescendo, Bon Scott, improvvisato profeta, canta la storia del Rock, con un sapore biblico e assoluto, insomma un brano che da solo racchiude tutta l’energia, il pensiero e l’anima del rock’n roll, qui interpretato da una delle band di maggiore autorità nel campo. Con “Bad boy boogie” gli AC/DC si calano definitivamente nella loro rinnovata identità, un brano legato alle loro origini, ma con uno stile fresco, rinnovato e per la prima volta, molto pesante, “arrabbiato”, un urlo di guerra, e mentre Bon Scott canta di essere un cattivo ragazzo, la vera cattiveria esce dalle chitarre dei fratelli Young, l’una complementare all’altra, si incrociano, si sostengono, le loro parti all’unisono si mescolano creando un vero e proprio muro sonoro, Malcolm Young è una macchina, ed unito alla compattissima sezione ritmica di Phil Rudd e Mark Evans, diventa poi micidiale, ed Angus è sempre più istrionico ed epilettico, qui nei suoi assoli più incandescenti di sempre.
“Overdose” è un piccolo balzo indietro, sicuramente il brano più sottovalutato, ma che in realtà ha carisma da vendere, nel suo incedere così tipicamente Rock 70, ed anche qui la band non risparmia le energie, Bon canta a suo modo di un’uomo innamorato, mentre la band sfodera uno stile molto “on the road”, per un brano per certi versi “sofferto”, musicalmente il meno giocoso dell’album, dove la band per un’attimo si siede, in attesa delle ultime furibonde tracce. Da dire anche che la voce di Bon Scott, in questo album migliora, si fa meno sottile, e comincia ad acquisire molta più personalità, un miglioramento via via in crescendo, fino al culmine di “Highway to Hell”. A questo punto, un brano già noto ai fan (europei) degli AC/DC, quella “Problem Child”, altro immortale capolavoro della band, originariamente apparsa su “Dirty Deeds Done Dirt Cheap”, un brano che effettivamente però fa fare un balzo indietro all’album, che avendo un suono molto compatto, si ritrova un pezzo con una sonorità diversa, chiaramente proveniente da un’ altro album. La canzone infatti sostituisce “Crabsody in Blue”, presente nella versione australiana, a mio avviso molto più idonea, a livello di sonorità e di contesto.
Un blues lento e grondante sudore, con un testo tra i più ironici e espliciti di sempre, da parte di un Bon Scott sempre più ammiccante e scavezzacollo, contrapposto ad un Angus, che interpreta uno dei suoi soli più sofferti di sempre. Gli ultimi due brani dell’album fanno parte della leggenda, ancora oggi tra i momenti più attesi dal vivo, “Hell ain’t a bad place to be” e “Whole lotta Rosie”. Due tra le tracce in assoluto più belle e immortali degli AC/DC, che dire dunque di due brani di tale portata? Il primo nel contesto di quest’album è un’ulteriore rinfrescata di stile, una nuova dimensione musicale che riesce a donare alla band, quel senso di autorevolezza, quel talento portato agli estremi, con un Bon Scott, che ci accompagna all’inferno, e ci prepara al rush finale, che mai ha avuto uguali. Mi riferisco ovviamente a “Whole lotta Rosie”, sicuramente il brano più scatenato mai inciso da Angus e soci, un continuo nervoso rincorrersi tra un Bon Scott più birichino e sciupafemmine che mai, ed una band incandescente, con Angus che qui si rivela un vero maestro.
Il pezzo è scatenato, velocissimo, un vulcano in eruzione, con la chitarra di Angus che sul finale esplode in un solo, veloce e tesissimo, una prova da maestro, grande conferma di un talento in continua crescita, che gli aggiudicherà un posto nella storia, come vera e propria icona del rock e chitarrista tra i migliori che questo genere abbia mai avuto. Anzi probabilmente il più grande. In sostanza l’album è come ho già detto, un’assalto sonoro al fulmicotone, che non risparmia l’ascoltatore neanche un’attimo, una festa a suon di martellante, incazzatissimo e onesto Hard Rock, in questo disco, in assoluto nella sua massima espressione artistica.