Potrebbe sembrare strano sentirlo dire dal sottoscritto: l’idea di cominciare a suonare la chitarra non fu influenzata dal fatto di ascoltare gli AC/DC, come è stato probabilmente per tanti utenti di AC/DC Italia. Forse a livello inconscio l’ascoltare gli AC/DC ha influito sulla mia decisione, ma non ricordo di aver esclamato una frase del tipo “voglio diventare chitarrista come Angus”o cose del genere. Per la mia testa di bambino di 11 anni non ancora compiuti, il fatto di cominciare a suonare fu semplicemente per curiosità, spinto dal suggerimento di mio padre.
Sono dell’idea che suonare gli AC/DC è forse una delle cose (per qualcuno potrebbe sembrare un paradosso) più difficili per un musicista. L’errore che tanti commettono è quello di non analizzare i motivi e i punti chiave del loro sound, il perchè del loro impatto sulle nostre emozioni, cosa ci spinge a dire “sono loro e basta”. Si tratta di un insieme di fattori, ognuno dei quali ha importanza fondamentale. Possiamo ben vedere (forse per tanti non è cosi semplice accorgersene) come ogni membro della band abbia un ruolo, con la R maiuscola. Una cosa infatti è considerare il gruppo attraverso la propria immagine mediatica, un’altra analizzare ogni singolo componente e realizzare come nessuno dei 5 membri attuali sia sostituibile. La cosa che mi ha sempre affascinato della band è, al di là del loro impatto visivo, scoprire come dietro al loro essere così “standard” si celi una serie di sfumature musicali che solo con le orecchie giuste, è possibile scorgere. Personalmente ritengo che ogni musicista debba avere come uno dei principali personali obiettivi il fatto di crearsi una propria personalità musicale, essere riconoscibile, in sintesi, ad occhi chiusi. Ognuno dei membri degli AC/DC possiede un’ identità musicale talmente forte e personale che, unite fra loro, creano qualcosa di unico. Sono convinto che per loro sia stata appunto questa apparente semplicità (oltre al loro “modo di essere” una volta scesi dal palco) a renderli una band di successo planetario: i tre accordi che suonano, sono i LORO accordi. Il loro groove è unico, ma per chi ascolta solo superficialmente la loro musica, sono semplicemente accordi ripetuti per 18 album.
Non sempre addentrarsi nelle viscere del loro sound ha avuto effetti positivi: per anni, perlomeno dagli 8 ai 14-15, ho sempre ascoltato solo loro. Suonato solo loro. E’ stato con l’arrivo del mio primo maestro di chitarra, un simpatico signore fan dei Deep Purple, Eric Clapton, dei Cream e della musica progressive degli anni 60/70, che ho scoperto l’esistenza di altre sfere musicali e di quanto si discostavano dal timbro e tiro degli AC/DC. Ricordo bene le sensazioni, la batteria di Ian Paice così ricca di accenti, rullate, quasi “fastidiose” per le mie orecchie abituate a un 4/4 dritto e corposo. La voce di Ian Gillan modulata nel canto, senza alcuno “stridolio permanente”, appariva alle mie orecchie comunque gradevole, ma senza la “botta” di Brian Johnson. Poi le tastiere, a primo impatto così inadatte al Rock che avevo sentito fino ad allora. Tutto ciò può sembrare un paradosso, probabilmente inconcepibile per qualcuno, ma a me gli AC/DC davano tutto quello che avevo bisogno: darmi la carica, anestetizzarmi da dispiaceri e momenti “no”. Perchè cercare altrove, quando avevo già tutto? Ad ogni modo, non disprezzavo quel nuovo “mondo musicale” che si era appena aperto, anche se il metodo di misura per il mio gradimento verso un nuovo brano era involontariamente il paragone con i 5 australiani. Questo modo di “giudicare”, giusto o sbagliato che sia, è divenuta parte consolidata del mio orecchio critico che negli anni successivi ha caratterizzato notevolmente il mio approccio con i membri delle piccole band di cui ho fatto parte. In fondo, una cosa normalissima: ogni componente ha un suo stile, un suo gruppo e un suo genere preferito.
Al di là di provare davvero gusto a suonare con gli altri, allo stesso tempo non ho mai disdegnato il fatto di mettermi a suonare per conto mio, in camera o in taverna, con l’amplificatore e l’impianto a un volume abbastanza fastidioso da farmelo abbassare ogni volta che finivo il primo brano, a volte addirittura il primo accordo. Solo ora, dopo quasi 15 anni che suono la chitarra, realizzo quanto potesse essere stato estremamente snervante ascoltare un bambino poco meno che adolescente, a malapena in grado di suonare il giro di Do, si cimenta nell’impresa di seguire le note di Thundestruck o il semplice riff di Hard as a Rock, tra l’altro con la più totale ignoranza su come si accordi correttamente una chitarra. Durante la mia adolescenza il traguardo musicale era semplicemente “arrivare” a suonare come Angus, era qualcosa di naturale riconoscersi nel piccolo grande chitarrista, essendo il componente con maggiore impatto visivo.
Per chiunque suoni gli AC/DC – ma anche per chi li ascolta e basta – bisognerebbe comprendere che la colonna portante del loro sound è per buona parte il fratello maggiore Malcolm, dedicando qualche ascolto al canale sinistro del proprio stereo. Comprendere come il suono sia meno distorto delle aspettative, e di come il tocco della sua mano destra sia stato un vero dono. Una volta presa coscienza di questi punto, è stato per me come scoprire un’altra faccia della medaglia, aprire una nuova porta. E’ stato un processo naturale poi, dedicare ore e ore a concentrarsi solo sulla traccia della chitarra ritmica, quindi ricercare di emulare (cosa tutt’altro che semplice) il suono pur non possedendo un’identica strumentazione. Una soluzione essenziale è stata quella di abbassare il gain (la distorsione) e dedicarsi allo sviluppo del tocco nel corso degli anni. Imparare a “zappare” sulle corde, arrivando entro breve ad una confermata supposizione: le normali scalature non erano adatte a cimentarsi nel ruolo di Malcolm, il “vero” spessore del suono. Ballbreaker è a mio parere uno dei migliori album su cui apprezzare il crunch di cui sto parlando, bilanciando l’audio sul suo canale.
Una cosa che i colleghi chitarristi fanatici della band avranno sicuramente provato è la sensazione di puro piacere che si prova mentre si è immersi nel sound degli AC/DC. E’ come entrare in uno stato di simbiosi, varcare una sorta di porta verso uno stato di estasi e perfetta armonia tra mente e corpo. Una vera e propria meditazione, se mi permettete il termine. Mi ritornano in mente le parole di Carlos Santana, attraverso le quali paragonava alcuni istanti di sintonia con il proprio strumento ad un vero e proprio orgasmo.
Concludendo, sono convinto che per imparare a suonare gli AC/DC (anche se il più grande traguardo è arrivare a capire come suonarli) occorrano anni, pazienza e dedizione. Per quel che mi riguarda, penso che sia proprio questo il tipo di approccio da assumere per tutte quelle band che vorrebbero intraprendere un discorso tributo. Non tentare di emulare le movenze a tutti i costi, ma far capire al pubblico che tutti i membri abbiano compreso appieno qual’è il loro ruolo nel suonare gli AC/DC. Questa è la mia opinione. Non concentrarsi su ciondolare la testa come Malcolm Young a discapito di perdere il controllo sul sound e tocco che si dovrebbe usare. Si potrebbe essere anche dei sosia perfetti, ma non consumare il plettro sul riff di If you want blood, o la parte ritmica iniziale di Shoot to thrill, la considero ironicamente una vera e propria mancanza di rispetto 🙂
Gabriele